Archeologia Storia Cultura Tradizioni
Segni nelle Dolomiti Orientali
PRESENTAZIONE DI
Giuseppe Sèbesta
Il bosco e la casa nella civiltà alpina furono due entità necessarie l'una per l'altra. Quando l'uomo neolitico abbattè il bosco, le case realizzate in tronchi di legno orizzontali, parallelopipediche con tetti a due ali in paglia, erano simili per cui dovette scattare, naturalmente, un "Segno di casa" che individuasse la proprietà di ogni famiglia.
In ultima analisi un marchio.
Il Segno inoltre doveva essere impresso su quel numero di alberi che sarebbero serviti, nel tempo, per restaurare la casa.
Atti umanamente logici.
Gianni Pais Becher, nato ad Auronzo nel 1948, da ragazzo osservava stupito i Segni incisi sugli alberi, attraversando i boschi, pensando che fossero antiche scritture degli avi, sollecitato in questo dai racconti della nonna che affermava che gli antichi abitatori del Cadore fossero i "pagane", le "anguane" ed altri misteriosi personaggi.
Poiché il maestro di scuola non sapeva rispondere al perché di quei segni, essi rimasero fissi nel cervello di Gianni.
Quattro anni or sono, uomo e guida alpina, lesse un manoscritto nell'Archivio della Comunità di Auronzo dove erano fissati molti "Segni di casa" dal 1687 al 1691; Segni che gli rammentarono quelli impressi sugli alberi.
Un colpo di luce!
Così iniziò una ricerca serrata, sul suo territorio, sollecitato ancor più da Ada Martella innamorata dei "misteri da svelare".
Gianni passò di casa in casa, esaminando le travature dei tetti, i fienili, parlando con gli anziani chiedendo il perché di quei Segni. Fissò sulla carta ogni notizia, ogni verità scoperta, fotografando inoltre i Segni sui tronchi.
Questo minuzioso lavoro di ricostruzione - collegamento lo riportò nuovamente negli archivi per ricontrollare ancor più.
Uno dei "Segni di casa" più significativi lo rintracciò nella chiesa di S. Antonio di Candide datato 1538. Il Pievano Paolo Zandonella aveva fatto dipingere dietro l'altare, in alto sulla parete, il proprio "Segno di casa" accompagnato dai Segni dei due giurati.
I "Segni di casa" sono ormai quasi mille che egli presenta in punta di piedi.Segni certi con corrispondenti nomi e cognomi preceduti da una nutrita successione di notizie temporali di Ada Martella.
Altri Segni non offrirono ancora risposte alla sete di voler sapere di Gianni ed Ada, Segni destinati ad un'altra avventura.
Grazie Gianni ed Ada per questi mille Segni di verità.
Trento, 8 maggio 1998
Giuseppe Sebèsta: etno - ergologo.
Foto di Giordano Giordani per gentile concessione.
SEGNI NELLE DOLOMITI ORIENTALI
Gli antichi Segni di Casa del Cadore I primi abitanti delle Alpi Orientali, per ripararsi dai gelidi inverni e dalle intemperie, utilizzavano l’abbondante legname dei boschi, sia per costruire i loro ripari (baite) sia per mantenere il fuoco necessario per la cottura del cibo e per riscaldarsi.
Alcune asce di pietra levigata, trovate al margine dei boschi montani e risalenti all'epoca neolitica, confermano senza ombra di dubbio questa attività. Nel volume "Dai Monti alla Laguna", edito nel 1988, lo studioso Giuseppe Sèbesta scrisse:
“Le asce di quel Neolitico-Bronzo erano così efficenti e ben manovrate da lasciare ancor oggi, sui pali preistorici tacche uniformi, regolari, distanziate nello stesso modo mentre le sezioni del legname rispettano quadrature ed angoli costanti”.
Probabilmente già in epoca protostorica, le genti che abitavano le valli del Cadore, avevano organizzato l’esbosco ed il trasferimento del legname in pianura tramite la fluitazione, marchiandolo con i Segni di proprietà.
L'incontro con lo studioso Giuseppe Sèbesta, che in numerose occasioni mi ha dato preziosi consigli, permettendomi di capire meglio l'importanza dei Segne de Ciasa, è stato determinante per stabilire un collegamento tra i Segni e le origini dei primi insediamenti stabili in Cadore.
Importantissimo è stato anche l'incontro a Belluno con il glottologo Giovan Battista Pellegrini.
Accompagnato da Giuseppe Sèbesta abbiamo trascorso alcune ore nel giardino della sua villa a dissertare sull'origine dei Segni di Casa e di quelli degli stessi mercanti, non trascurando l'ipotesi che derivino dalle rune o dall'alfabeto venetico.
Durante gli ultimi anni la ricerca archeologica in Provincia di Belluno ha avuto un impulso notevole grazie soprattutto alla passione e costanza di Aldo Villabruna, Carlo Mondini, Eugenio Padovan, Virginio Rotelli, Milo Mazzucco, Ilvo D'Alpaos, Paolo Viel, Dario Dall'Olio ed i loro collaboratori.
Nel 1996 sulle tracce di Giovanni Battista Frescura, Enrico De Lotto, Adelmo Peruz e Alessio De Bon, Giancarlo Arnoldo e un gruppo di appassionati hanno fondato il Gruppo Archeologico Cadorino.
Presieduto attualmente da Dino Ciotti, il gruppo sta approfondendo la possibilità di effettuare nuove ricerche in siti ritenuti di notevole importanza storica, con la speranza di riuscire a trovare reperti importanti in grado di datare le origini dei primi insediamenti stabili e la provenienza delle genti protostoriche che sicuramente hanno popolato gran parte del territorio cadorino.
Il 19 marzo 2000, Elio Vecellio Galeno ha rinvenuto sul Monte Calvario in località Villagrande di Auronzo, alcune lamine di bronzo contenenti iscrizioni protostoriche e due dischi raffiguranti divinità che non sembrano essere riconducibili ad altre finora conosciute.
Esaminando le iscrizioni di Auronzo, di Lozzo, di Calalzo, di Domegge, di Pieve, di Pozzale e di Valle, ho potuto constatare che le matrici dei Segne de Ciasa del Cadore e dell'Ampezzano coincidono perfettamente con molte lettere incise sulle lamine.
Le conoscenze che abbiamo finora, non ci permettono di definire i Segni del Cadore un alfabeto, ma sicuramente molti di quei segni sono stati tramandati attraverso la memoria degli anziani che gli avevano rilevati dall'antica scrittura dei Proto-Cadorini.
Il più antico documento che ricorda il commercio del legname nei boschi del Cadore è un cippo scoperto a Belluno nel 1888, che risale al secondo secolo dopo Cristo.
Nel cippo un iscrizione voluta da Giunia Valeriana in onore del marito Marco Carminio Pudente, lo cita come patrono dei Cadorini (Catubrinorum) e racconta dell’ esistenza a Belluno di una società di dendrofori (patrono Collegi Dendrophorore) che esercitavano la professione del trasporto o meglio conduzione del legname anche mediante la fluitazione.
Da questa iscrizione si deduce che i Romani avevano organizzato l’esbosco ed il trasporto del legname dai monti alla pianura attraverso i fiumi, segnando le taje per poterle riconoscere durante e dopo la fluitazione.
Nell’Editto promulgato il 22 novembre del 643 da Rotari re dei Longobardi, al capitolo CCXL vengono descritte le pene per colui che avrà fatto intenzionalmente dei nuovi contrassegni o snaida, sugli alberi di un bosco e non avrà dimostrato che è suo, pene che vengono aggravate nel capitolo successivo, dove è prevista addirittura l’ amputazione della mano se i Segni o snaida verranno fatti dai servitori senza l’ordine del padrone.
Adolfo Di Berenger originario di Monaco di Baviera ed Ispettore dei boschi in Cadore fino al 1869 è stato uno dei massimi esperti in materia forestale. Ha lasciato importanti e monumentali opere, tra cui il volume "Studi di Archeologia Forestale", dove, alle pagg. 441 - 442, tratta degli Arbores signatae: cioè dell'antica usanza di dare indicazioni ai viandanti incidendo sugli alberi con la mannaja, vari tipi di Segni: a seconda della posizione topografica dell'albero o dell'andamento del confine di cui gli alberi segnavano il corso; in modo che gli agrimensori, iniziati nei misteri di questa specie di geroglifici, potessero verificare agevolmente le linee di ogni confine.
Un incisione profonda nel tronco significava che la linea di confine passava per un forame o un burrone; una striscia tortuosa, che si doveva seguire il corso di un fosso o di un ruscello; le corna di un toro, che la sorgente del torrente scaturiva tra due montagne; un gamma greco, che quell'albero faceva da angolo al confine; un X latino; che l'albero era posto al centro di un quadrivio.
Nello stesso volume Di Berenger racconta che al tempo dei Romani i defunti venivano spesso sepolti nei boschi sacri, i cui confini erano delimitati da Segni incisi negli alberi.
In Cadore, regione Dolomitica incuneata tra Alto Adige e Friuli che vanta secoli di storia e di autogoverno, attuato attraverso l’istituzione delle Regole e della Magnifica Comunità, i boschi erano e sono di proprietà indivisibile e inalienabile di tutti i cittadini originari. Nel testo dello statuto del 1338, la Comunità del Cadore affermava:
"Vogliamo, et ordiniamo, che tutti li boschi posti in Cadore siano, et debbano essere Communi ali Uomini di Cadore, e non ad alcun foresto, et che ciascun Uomo di Cadore possi liberamente, e senza alcuna gabella, in ogni tempo, lavorare e far lavorare in detti boschi legnami, e legni di qualsiasi sorte e quantità ei siano, eccetto, che nelli boschi, nelli quali espressamente è proibito dalli Statuti, che non si faccino tagliare legname, o legni, salvo, se alcuno avesse sopra di ciò special giurisdizione.
Si aggiunge che se alcun foresta contraffarà tagliando, o lavorando, o facendo tagliare, o lavorare alcuni legnami in detti boschi, sia condannato per ciascuna volta, e per ciascuno in soldi quindici de piccoli, la terza parte della quale pena sia della Corte, e l'altra terza del Commune di Cadore, e l'altra terza dell'Accusatore, e nondimeno perda li legni, salvo li legnami dodeci passi in su".
I boschi del Cadore erano dunque proprietà privata dei Cadorini, cioè dei capofamiglia che rappresentavano il loro fuoco all'interno delle Regole. Molto probabilmente gli Uomini del Cadore pur restando i veri proprietari dei boschi, avevano delegato alla Magnifica Comunità la possibilità di bandirli a qualsiasi taglio, per restituirli alle singole Regole attraverso la consuetudine della Witha.
Purtroppo sono andati smarriti i documenti antecedenti al 1186, per cui non c'è la possibilità di risalire al momento in cui le Regole hanno deciso di concedere tale delega.
Le withe erano dei boschi che venivano banditi e dati in uso alle Regole, che ne facevano espressamente richiesta in base a comprovate necessità, dietro il versamento di una tassa annuale e destinati ad usi diversi. C'erano quindi dei boschi che servivano per la ricostruzione delle baite distrutte da incendi o da altre calamità naturali, oppure al miglioramento di quelle esistenti: le withe da dasa e da dema; altri destinati esclusivamente per il legnatico: le withe da fogolar; altri nei quali era tassativamente proibito qualsiasi taglio perché situati in zone molto scoscese dove le frane o le slavine potevano minacciare i centri abitati: le withe da lavina; ed infine i boschi destinati alle esigenze delle chiese: le withe por la gesia.
I limiti dei boschi vizzati venivano segnati dai saltari (i guardiaboschi) con il simbolo delle Regole alle quali la Comunità Cadorina aveva deliberato di riassegnare la Witha oppure con il Segno di casa dei privati che gli avevano ricevuti in subaffitto dalle Regole.
Don Pietro da Ronco ha pubblicato in Archivio Storico di Belluno Feltre e Cadore, anno X n°57, una sua ricerca sul "Dominio dei Longobardi in Cadore" e a pagina 999 così ha definito la Witha : "Oggidì bosco folto e rigoglioso ; ma in origine significava bosco bandito ossia designato come bosco nel quale erano proibiti i tagli, dal longobardo wifa = segno, tacca, marchio.
Qui ci avverte Gianluigi Andrich nei suoi "Appunti di diritto pubblico e privato Cadorino", dobbiamo rilevare un'inesatezza in cui è caduto il Ciani. Questi scrive vizae e non wizae, mentre in tutti i documenti Cadorini ed in genere Veneti la parola è scritta con la w doppia. Ciò non ha poca importanza e fa cadere la derivazione dal latino del Ciani".
Penso che l'Andrich si riferisse a documenti anteriori al 1500, perché in quelli che ho potuto verificare personalmente e successivi a tale data la parola era gìà stata modificata in vizza, per cui oltre che perdere la w doppia per cercare di italianizzarla era stata aggiunta una zeta che modificava la pronuncia originaria in lingua Ladina che suona similmente al wifa Longobardo.
Il glottologo Giovan Battista Pellegrini ha analizzato a fondo la voce medioevale Witha pubblicando uno studio approfondito nell'Archivio Storico di Belluno, Feltre e Cadore n°173 del 1965 alle pagine 121 - 132, che difende l'interpretazione dell'Andrich riguardo alla sua derivazione dal Longobardo, precisando che: "E' verosimile che th fosse presente nel sistema fonoematico delle parlate venete già prima del 1000, per cui il Longobardo wifa fu ivi mutuato - forse anche per la spinta dissimilatrice esercitata dalla prima labiodentale sonora v (w germanica divenne presto v nell'Italia superiore) - con vitha, pronuncia tuttora vivissima nei dialetti veneti periferici e non soltanto settentrionali".
Ma anche Carlo Guido Mor nel suo volume "I Boschi Patrimoniali del Patriarcato e di San Marco in Carnia", edizione del 1992, a pagina 77 scrive:"Noterò qui un termine che è molto significativo : guizza o vizza. Esso, come è noto, viene dal longobardo Wifa per significare terra di qualsiasi sorta segnata col segno regio, cioè terra fiscale.
Ed ancor oggi è noto il bosco Wizza di Cadore, che appartiene al patrimonio forestale dello Stato". Adolfo Di Berénger, nel suo “Saggio storico della legislazione veneta forestale dal secolo VII al XIX” pubblicato nel 1863, ha scritto:
“Per boschi di confine, ossia defensorii, s’intendevano i distanti non più di duemila piedi da un confine territoriale. Una legge della Comunità Cadorina, anteriore all’anno 1338 (Libro 2, cap.CXXV, Statuto Cadorino) inibiva di svegrarli, disboscarli e tagliarne legni ( … nec debeat ronchari … vel fractari facere, nec lignamen incidere); tuttavia per le continue questioni di confine con i Tirolesi, la distruzione di questi bellissimi boschi era cominciata fin dal XV secolo.
La Comunità Cadorina (civilmente costituita a guisa delle Marche germaniche, cioè comuni democratici, tutelati da qualche altro Stato o Principe o Signore) oltre a quei boschi di confine, ne possedeva numerosissimi altri, della superficie complessiva di ettari 38.657, distinti in: vize di laudo, vize propriamente dette, vize di faggio, boschi di proroga e boschi censi … verso la metà del secolo XVI non v’era più un abetaia in Cadore che non fosse vizata; perché quelle che le Regole non avevano riservato per sé, vennero vizate dallo stesso Maggior Consiglio, dichiarandole una proprietà esclusiva del suo corpo legislativo; facendo dell'eccezione una regola.
D'allora in poi, per distinguere i boschi banditi abusivamente da quelli vizati con autorizzazione del Consiglio, si chiamarono questi Vize, quelli Vize di laudo … trascurando e violando le leggi con tagli intempestivi ed irregolari, e per innumerevoli abusi, il Cadore menomava le sue rigogliose abetaie cosi chè il faggio giunse ad ingombrare man mano le ampie radure, soperchiò il novellame resinoso e giunse ad occuparne la sede.
Per ciò all’entrar del secolo XVI il mercato delle taglie d’abete e degli squadrati in Cadore era divenuto scarsissimo ed incominciava a fiorire un nuovo mercato di borre di faggio …
Tale commercio divenuto oggetto di speculazione da parte dei Nobili veneti, fattisi commercianti di legname, e per insinuazione di essi (Contarini,Sagredo,Corner ed altri), facendo un nuovo sterminio dei boschi, ma questa volta di quelli di faggio: come del Tovanella, in cui Lorenzo Giustinian, Procuratore di San Marco, fece abbattere in un solo anno settantamila faggi (Ducale del 16 agosto 1534), ne avenne che i comuni giungessero a rigenerare le loro abetaie e a riprendere il commercio delle taglie … ma assai lentamente … ed i comuni avendo bisogno di denaro non volendo e non potendo aspettare che i boschi acquistassero la maturità mercantile, s’avvisarono di affittarli a lungo periodo, verso pagamento anticipato di una parte dei fitti … partendo dal malesempio del Centenaro di Pieve di Cadore (residenza del Maggior Consiglio), col aver affittato per venti anni tutte le sue vize, e concesso ai fittanzieri di utilizzare in esse tutte le piante che a venti piedi sopra terra non avessero meno di tre oncie di diametro; esempio imitato dallo stesso Maggior Consiglio, dando in affitto nel 1700 gli ultimi cinque boschi (Praducchia, Rinaldo, Gogna, Popena e Tovanella) che erano di proprietà indivisa della Comunità di Cadore”.
Il Cadore pur conservando una certa autonomia dovette comunque piegare il capo agli invasori di turno Dopo i Celti, i Romani, i Goti, i Longobardi ed i Franchi di Carlo Magno, dal 951 al 1077 sottostò ai duchi di Carinzia, dal 1077 al 1337 ai conti da Camino, quindi fino al 1347 a Lodovico di Brandeburgo e dal 1347 al 1420 ai patriarchi d'Aquileia.
Crollato il potere temporale dei Patriarchi, nonostante le perplessità di alcuni Centenari, il 31 luglio del 1420 i Cadorini fecero atto di dedizione al doge di Venezia Tommaso Mocenigo e con Venezia rimasero fino al 1797, anno in cui vennero invasi dalle truppe di Napoleone.
Tutti gli invasori, a partire dai Duchi di Carinzia, accettarono e rispettarono almeno in parte gli antichi ordinamenti di autogoverno degli Uomini di Cadore.
Nel 1511 il Cadore perse Ampezzo che passò al Tirolo, con gravi ripercussioni nel commercio del legname essendo il territorio delle Regole d'Ampezzo quello che vantava la maggior estensione di boschi e di pascoli. Dal 1813 al 1866 tutto il territorio cadorino passò con l'Austria e dal 1815 venne aggregato al Regno del Lombardo - Veneto.
Il 21 e 22 ottobre del 1866 i Cadorini votarono il pebliscito per l'unione all'Italia.
Fino alla prima guerra mondiale l'economia del Cadore era basata principalmente sulla pastorizia e il commercio del legname proveniente dai ricchi boschi che, sviluppandosi in un microclima particolarmente favorevole, era ricercato e conosciuto per l'ottima qualità della fibra legnosa.
In passato era molto noto l'adagio che recitava : "Larès, pèz e pin fei le spese al cadorin", ed in effetti il commercio del legname ha permesso per secoli ad alcune famiglie del Cadore di sopravvivere dignitosamente.
Ma a causa del taglio indiscriminato dei boschi perpetuato da alcuni mercanti privi di scrupoli che guardavano solamente al loro interesse immediato, il mercato del legname subì per alcuni periodi un arresto improvviso ed ai cadorini per far fronte alla crisi economica in atto, non restò altro che emigrare lungo le contrade d'Europa in cerca di lavoro.
A differenza dei montanari che avevano appreso dai loro avi che i boschi dovevano essere tagliati in modo ragionato per preservarli nei secoli, i mercanti, spinti dalla crescita della domanda di legname di qualità proveniente dalla pianura veneta, fecero razzia sia nei boschi del Cadore sia in quelli dell'Alpago, con la conseguenza che i Patriarchi d'Aquileia prima e la Repubblica di Venezia poi furono talvolta costretti ad importare legname dall'estero.
Nell'area compresa tra la Slovenia ed i Grigioni, si marchiavano i tronchi taje e tutte le travi squadrate squarade, incidendo un Segno convenzionale tramite una piccola accetta l’manarin, sostituita in seguito da un apposito attrezzo di ferro ricurvo a sguscio e ben affilato l’ fer da segnà, finchè nel secolo scorso vennero fabbricati i martelli forestali che battuti con forza imprimevano sulle taje e sugli squarade le iniziali del proprietario in mezzo alle quali il fabbro aveva scolpito anche il Segno de ciasa.
I Segne dovevano essere unici, in modo che anche durante la fluitazione, ciascun mercante potesse riconoscere facilmente il proprio legname.
Fino alla seconda metà del 1800 pochi sapevano leggere e scrivere, ma tutti gli addetti ai lavori erano in grado di riconoscere i Segni che differenziavano con precisione la proprietà delle taje, che a migliaia scivolavano dai monti alla pianura attraverso i fiumi la menàda.
Il 3 marzo 1357 il Patriarca Nicolò di Lussemburgo intervenne per dirimere una vertenza tra alcuni mercanti di legname a causa di sequestri di tronchi avvenuti anche in Cadore.
Nel documento viene messa in evidenza l’importanza della marcatura del legname con i Segni per identificarne la proprietà.
Negli Statuti della Magnifica Comunità di Cadore era stato istituito un articolo che recitava sulle pene da assegnare a chi avesse cancellato o sostituito il Segno di altri con il proprio, condannandoli a seconda della gravità del fatto e, sentiti il Vicario ed i Consoli, alle stesse pene previste per i ladri.
Venivano perciò multati una tantum per ogni tronco dando tempo dieci giorni per il pagamento, altrimenti i colpevoli dovevano essere incatenati su un palco nella piazza principale del paese con un cartello appeso al collo sul quale era stata scritta la nefandezza commessa, subendo così lo scherno della popolazione senza per questo avere il condono della pena.
Il 1 marzo del 1428 il Consiglio di Cadore decide di inasprire le pene per i ladri di legname promettendo una congrua ricompensa ai delatori, ai quali era garantito l’ anonimato. Nello stesso Consiglio si deliberò di costruire una forca a Perarolo lungo la Cavallera quale monito per i troppo furbi.
La Repubblica di Venezia aveva assoluta necessità di reperire grandi quantità di legname che veniva utilizzato sia per le costruzioni, sia per le alberature delle numerosissime navi, sia per i remi ed infine come combustibile per cucinare e riscaldarsi.
Riporto di seguito alcuni documenti che dimostrano il grande interesse della Serenissima per le foreste del Bellunese:
Il 4 gennaio 1476 la Repubblica di Venezia legiferava in materia forestale ribadendo che "I boschi non sono solo utili, ma necessari alla nostra città".
Il 14 novembre del 1591 Francesco Sagredo, Rettore Veneto in terraferma per la Podesteria e il Capitanato di Feltre, scriveva al Senato: "Scorrono per il detto suo territorio fiumi assai famosi, l’uno nominato il Cismone che discendendo dalla Val di Primiero et luoghi dell’ Arciduca (il Tirolo, nda) va a refferire nella Brenta; l’altro la Piave, per li quali vengono facilissimamente per il corso d’ acqua condutti da mercanti grandissime quantità di legni tanto da opera quanto da fuoco estratti parte da luoghi di detto Arciduca, parte da Cadore et parte dagli suoi territori di Belluno et Feltre; con grandissimo beneficio di questa Sua città e delle Sue città di Treviso, Padova, Vicenza et altri luoghi della Serenità Vostra, nei quali con il beneficio dell’ acqua vengono con facilità a capitare".
Alvise Mocenigo, Rettore Veneto in terraferma per la Podestaria ed il Capitanato di Belluno, il 12 marzo 1608 scriveva al Doge: "Ho veduto li boschi, che ha la Serenità Vostra in Alpago, cavalcando tre giornate per quelli, et si come devono esserLe carissimi a guisa di un prezioso tesoro, perché essendo copiosissimi di faggi, avendone la debita cura, suppliranno per sempre abbondantissimamente al bisogno che possa avere di remi per le galee o fuste per la più grossa e potente armata, che Essa decidesse di mandar fuori".
Il 18 luglio 1640 Ermolao Tiepolo Rettore Veneto a Belluno, scriveva al Senato della Serenissima:
"Mi resta per ultimo di significar con più concisa brevità l’operato et osservato nel mio viaggio sul luogo della menada publica nel bosco della Vizza di Cadore (cioè il bosco di Somadida situato nei pressi di Palùs di Auronzo, che era stato concesso in viza alla Serenissima, nda).
Tutti gli squadradi nel numero di millecentocinquanta erano nell’ acqua e camminavano felicemente portate dal fiume, ingrossato dalla liquefazione delle nevi…omissis.... Così riuscì pienamente l’opera ed ora tutti gli squaradi sono in località Fontane di Auronzo, cavati d’ acqua per la loro preservazione, per dover questo autunno essere innacquati nuovamente e condotti a casa dell’ Arsenal. Le taje a quest’ ora saranno giunte ai Tre Ponti, dove si dovranno unir colla menada grande di mercanti sin alle sieghe di Perarol, e di là ridotte in tavole e quindi condotte a Venezia".
Giulio Contarini, nel frattempo succeduto al Tiepolo, da Belluno il 20 novembre 1641 scriveva al Doge a Venezia: "Ha la Serenità Vostra in quel paese ricchissimi depositi per i bisogni della Casa dell'Arsenale. L'uno è il bosco d'Alpago, oltre quello di Caiada di fagheri da remi, et un altro da arbori et antenne nella Vizza di Cadore, a cui sopraintende il Podestà di Belluno". Il 20 settembre del 1656, Francesco Morosini inviò al Doge una lunga relazione, dove tra l'altro scriveva:
"Di quei pubblici boschi non aggiungerò di vantaggio a quanto con l’occasione delle visite da me fatte ho rappresentato nelle mie suddette di 2 decembre, et 9 luglio decorso. Sono detti boschi di quel sommo momento, ch'è ben noto; quello della Vizza di Cadore per esser unico, che produca a Vostra Serenità albori dai galera, e galeazza; e quelli d’Alpago, e di Caiada sono pur singolari, potendo somministrar ogni gran numero de’ remi, che occoresse". Adolfo Di Berenger a pag. 580 della sua monumentale opera "Studi di Archeologia Forestale" ha scritto: "Le altre foreste di montagna riuscivano tutte passive allo Stato, difettando di strade ma non solo, anche di canali navigabili.
La più preziosa di esse, per l'eccellenza del legname d'abete, superiore per elasticità, e forza a qualunque altro congenere nell'Europa era il bosco di Somadida nel Cadore, di ettari 1586 (comprese 12O7 di roccia nuda); ma ciò non pertanto poco giovevole alla Repubblica, almeno fino all'anno 1770, in cui soltanto fu costruita una strada carreggiabile col dispendio di 1200 ducati, sostenuto dalla Comunità Cadorina".
I mercanti entravano in possesso del legname prima della tappatura e segnatura che avveniva dopo che tutte le taje erano state contate, misurate e quotate pezzo per pezzo a seconda della loro qualità.
Le taje venivano accatastate in prossimità del torrente o della carrareccia in luoghi generalmente piani chiamati stathe da Segno dove avvenivano le contrattazioni del prezzo in base alla qualità del legname.
Durante la fluitazione era importante che le taje fossero state tappate, cioè incise con il manarìn (piccola accetta) per una profondità di quasi un centimetro riproducendo il marchio del mercante, in quanto l’acqua provvedeva ad evidenziare le incisioni allargandole e facilitando così la scelta delle taje al thidol (cidolo) dove venivano smistate per ogni proprietario.
In Cadore venivano effettuate due fluitazioni all’anno, una in primavera, generalmente nel mese di maggio quando il disgelo provocava la brentana, cioè l’ingrossamento dei fiumi per cui i Cadorini la chiamavano menàda granda ed una in inverno che veniva chiamata menàdola, perché l’ acqua era meno abbondante.
Nel 1875 passarono per il Cidolo di Perarolo 260.000 taje e 30.000 squarade e le 132 seghe che lavoravano lungo il Piave allestirono quell'anno 3.800.000 bree (tavole), trasportate verso la pianura da più di 3.500 zattere. Ancora negli anni venti, con la menàda granda affluivano al thidol 150 mila taje, mentre con la menàdola ne giungevano poco meno della metà.
Lungo il fiume, operai specializzati muniti di anghièr o angièr (aste lunghe e flessibili armate di rostro d’acciaio), liberavano le taje che s’incastravano dietro a grossi massi o lungo le sponde. Al cidolo il legname si fermava per lo sbarramento, finchè con l'apertura della saracinesca usciva entrando in un canale detto roggia dove veniva raccolto e fatto asciugare dagli operai delle segherie incaricate dai mercanti di ridurlo in tavole.
In Cadore si ha notizia dell’ esistenza di tre thidoi (cìdoli): quello di Perarolo che era il più importante perché vi confluivano tutte le taje provenienti dal Cadore: distrutto dalla piena del 1649 venne ricostruito più a valle nel 1668 e rifatto nuovamente nel 1707.
Quello sul Boite che era di proprietà della Magnifica Comunità di Cadore e quello di Domegge molto antico, lo troviamo già menzionato in un documento del XIII secolo.
La fluitazione del legname proseguiva da Perarolo per Treviso e Venezia con le zattere; ogni zattera poteva essere caricata fino a 25 metri cubi di legname e nel 1856 lungo il fiume Piave ne scesero oltre 3000. Le zattere guidate da uomini abilissimi e robusti e costruite con un sistema antichissimo erano formate da 20 travi legate assieme dalle sache, specie di funi tratte dai cespugli di nocciolo che dopo un artigianale lavorazione di sfibratura e torsione venivano infilate nei fori praticati in ciascuna trave. La piattaforma superiore composta di tavole era trattenuta da chiodi di legno con rinforzi di pali trasversali da cui sporgevano i postièi, cioè i postelli di sostegno per i remi.
Mentre i thidoi sbarravano i fiumi, sui torrenti in luoghi stretti e rocciosi venivano costruite le stue, cioè degli sbarramenti che come una diga trattenevano le acque formando un laghetto artificiale, a valle del quale nell’alveo del torrente erano state ammassate longitudinalmente le taje.
Quando il bacino era colmo, veniva aperta la porta della stua e le taje sospinte dalla potenza dell'acqua scivolavano velocemente fino ad immettersi nel fiume, attraverso il quale raggiungevano il thidol. Se le stue erano un ottimo sistema per il trasporto del legname, per contro erano anche la causa di dissesto idrogeologico: l'acqua trattenuta artificialmente e poi lasciata uscire tutta insieme, erodeva con forza i fianchi dei torrenti che franavano in più punti provocando la caduta di numerosi alberi, causando danni notevoli ai boschi e ferite irreparabili all'habitat naturale della montagna.
Il 6 dicembre del 1434, durante una seduta del Consiglio della Magnifica Comunità di Cadore, vengono sentiti Antonio de Bonmassai (poi Bombassei) e Paesius (poi Pais) rappresentanti della Regola di Villagrande di Auronzo che a nome della loro Comunità elevano ferma protesta per una stua costruita da alcuni teutonici sul fiume Rivi (nella Val Rinbòn) invitando il consiglio a rivedere gli accordi presi tra la Comunità di Auronzo ed Antonio Piloni riguardo alla stua in questione.
Giuseppe Sèbesta nel volume “Dai Monti alla Laguna” a pagina 36 scrive: “La stua di Padola ebbe lunga vita, ripetutamente rinnovata, dal 1521 fin oltre al 1863. Una seconda lavorò sul canale di Visdende già nel 1580, una terza in Longiarù (Lozzo) nel 1589, una quarta in Val Vedessana (Calalzo), una quinta in Val Cridola (Lorenzago) ed una sesta sul Boite dal 1688. Una settima infine in Val di Pezzon.” Il traffico di legname che dalle stue fluitava fino al cidolo di Perarolo era talmente intenso, che qualche volta i boscaioli dimenticavano di tappare e segnare qualche taja; in quel caso la chiesa Parrocchiale di San Nicolò di Perarolo entrava in possesso di tutto il legname che perveniva al Cidolo senza la Tappa o il Segno del proprietario.
Questa consuetudine, inserita nel laudo di Perarolo del 1518 doveva essere stata approvata dai mercanti di legname già qualche secolo prima. Presso la Biblioteca Cadorina di Vigo, nel lascito di Fiorello Zangrando, busta XIV, abbiamo rintracciato un documento del 22 aprile 1855 che recita: " Noi sottoscritti tanto nella nostra specialità, come quali Rappresentanti il Ceto dei Signori Negozianti di legname sui due fiumi Piave e Boite, nonché nei loro confluenti dichiariamo a lume del vero, che il Sig. Parroco pro tempore di Perarolo ha il diritto di percepire da tutti i Sig. Commercianti ed altri che versassero nel traffico dei legnami l'annua contribuzione corrispondente al quartese o decima delle altre Parrocchie, d'una taglia per ogni mille nelle rispettive classi e misure di tutte quelle che giungono a Perarolo percorrendo non solo il fiume Piave ma anche il Boite.
Dichiariamo inoltre che tale pratica introdotta fino dall'anno 1404, epoca in cui fu istituita la Parrocchia, fu sempre gelosamente e scrupolosamente osservata dai Signori Negozianti suddetti, come pure confermata da vari Decreti Governativi, giacchè risulta dagli atti, che la concessione del Sacerdote da essi Commercianti implorato cum obbligatione illum alendi, et propriis expendis sustinendi fu appunto vincolata a tale obbligo.
Dichiariamo infine, che in causa di tale corrispensione i Parroci di Perarolo, come sempre per l'addietro, continuano anche al presente ad applicare annualmente tutte le Messe festive a favore dei Signori Negozianti, ed a fare altre sacre funzioni, quali sono in principalità, di esporre il Santissimo in ogni festa durante l'apertura dei Cidoli, e similmente nell' Ottavario dei Morti con Messa, ed in qualunque circostanza in cui le acque, per istraordinario ingrossamento, avessero a far temere in qualche sinistro. In fede ci sottoscriviamo Bortolo Lazzaris, Agostino Coletti procuratore dei Signori Negozianti di Legnami, Gioachino Wiel, Costantino Costantini, Gio: Batta Cadorin.
Non contento il Parroco di Perarolo nel 1875 si rivolgeva direttamente a tutti i Comuni del Cadore chiedendo:"che in occasione degli annuali Segni delle taglie di elargire un caritatevole sussidio di legname … favorendo in pari tempo di far contrassegnare le taglie colla consueta marca e col Segno S.N.P. e di avvisare, della elemosina fatta, alcuno dei Conduttori Fluviali".
Scrivendo di Perarolo lo storico cadorino Antonio Ronzon nel Almanacco Cadorino "Da Pelmo a Peralba" nel 1875 raccontava: "Parlando di Perarolo tutto si riduce a due parole sole : Piave e legname. Alzando gli occhi non vedi che monti e rocce, abbassandoli non vedi che Piave e Boite, e taglie, e travi, e assi e tavole accatastati sulle sponde, e tettoie e officine, e tutto un fervore, un agitarsi di valenti operai che estraggono legname dalle rogge, di segati, che passano da uno stabilimento all'altro curvi e mingherlini, come tanti sarti, e un quotidiano spettacolo di zattere che partono e di carri che arrivano, mentre al mormorare delle onde si mesce lo stridor delle seghe e il risuonar degli incudini e dei martelli".
Per poter meglio capire quale era l'utilizzo dei Segni e l'importanza che avevano in Cadore nei secoli scorsi, ho ritenuto opportuno pubblicare la sintesi di alcuni documenti trovati negli Archivi della Magnifica Comunità di Cadore, della Biblioteca Storica Cadorina di Vigo di Cadore, del Comune di Auronzo, delle Regole del Comelico e in Archivi privati dai quali ho potuto trarre molte informazioni utili alla ricerca; tra cui la scoperta che anche in Tirolo ed in Germania si usavano i Segni de casa:
Nel mese di novembre del 1609, Andrea Da Vià fu Antonio, saltaro (guardiaboschi) della Regola di Vallesella, incideva alcune taje con il Segno di Nicolò Boldù che durante quel periodo era Capitano del Cadore. L'otto novembre del 1640 Renier Foscarini Luogotenente di Udine informa il Doge che Pietro Zambelli ed alcuni boscaioli di Candide e Casamazzagno, accusati dai Tirolesi di aver tagliato alcuni alberi al Passo di Montecroce Comelico in territorio austriaco, erano innocenti perché:"da più legali testimoni chiaramente si cava, ch'esso Zambello agl'operarij commettesse ogni maggior avvedutezza, perché si tenessero nei limiti del dovere in questa operazione, et che lasciassero i legni segnati dal Segno dei todeschi".
Il 13 dicembre del 1686, Piero De Luca da Vodo compare davanti agli inviati del Consiglio del Cadore per chiarire che le taje di larice trovate al porto di Borca, marchiate con il proprio Segno di casa, erano state contrattate l’anno precedente con l’ampezzano Zambatta Zambelli il quale, nonostante il Segno già apposto, le aveva vendute a Zuanne Sala e a suo fratello. Il 17 ottobre 1693, durante la terminazione della Vizza di Col Alto sopra Palùs San Marco, terminazione che veniva effettuata incidendo i massi o i tronchi delle piante con delle croci, su un faggio e su un abete bianco cresciuti vicino al giau dell’ acqua che scende dal Col, sono stati rinvenuti due Segni di casa .
Il 27 gennaio 1704 durante la faula (assemblea) tenuta nel Padiglione solito sopra la Piazza di Santa Giustina, presenti tutti i Regolieri di Villagrande di Auronzo, Zuanne Zandegiacomo denuncia che alcuni uomini di Ampezzo e di Dobbiaco hanno asportato da Mèsorina molti tronchi di cirmolo, già segnati da Zuanne Cattaruzza fu Domenico e Cristoforo Vecellio fu Zambatta. A seguito del controllo effettuato nel mese di luglio del 1724 in alcuni boschi, Giuseppe fu Zulian Vecellio e Zulian Zandegiacomo, ispettori delle Regole di Auronzo, hanno scoperto alcune piante tagliate senza permesso in Po Orse e Valsalega da Nicolò Vecellio d’Oliva, identificato perché le aveva incise con il proprio Segno di casa.
In un documento del 24 maggio 1797 scritto a Campolongo risulta che le Regole di Val Comelico e Presenaio segnarono in quel giorno 1.400 tra taje e thime, costringendo Osvaldo Antonio Corte a promettere alla presenza di Giovanni Maria Pomarè, Giuseppe Tabacchi e Antonio Bombassei Gonella, di rimuovere tutto il legname dal statho de Segno e trasportarlo a sue spese in coda alla Menada senza spese da parte del Costantini. Il 17 giugno 1797 Giovanni Battista De Mario, Giacomo Di Lener e Valentin fu Pasqual Somia affermarono che Battista Manarin aveva segnato per la Regola di Costalissoio: 2.188 tra taje, thime e tarithe, comprese anche 60 sottomisura.
Nel mese di aprile del 1816 Nicolò Rubbini direttore della Regia Agenzia Marittima di Farra d’Alpago, incarica Gianmaria Larese Casanova e Mariano Rizzardi Fraja di Villapiccola di Auronzo di eseguire l’esbosco di 462 taje di abete dalla Vizza di Auronzo (Sommadida) e, dopo averle segnate con il simbolo della Regia Marina, trasportarle in riva al fiume Ansiei dove acqua permettendo si sarebbero fatte fluitare verso valle.
Nel Contratto di Abboccamento boschivo stipulato il 13 giugno 1854 tra il Comune di Auronzo per la Frazione di Villagrande e l'abboccatore Prospero Bombassei fu Costantino, all'articolo 3 c'è scritto: "Nel medesimo incontro sarà dovere preciso dell'Abboccatore di far marcare e segnare le taglie col Segno della Frazione e colla Tappa della Ditta acquirente per impedire il derubamento". Il Regolamento di rifabbrico del Comune di Auronzo, approvato dalla Deputazione Provinciale di Belluno in data 10 giugno 1871, all' articolo 17 prevedeva che durante il tempo nel quale si effettuavano i Segni e la fluitazione del legname, non potesse venire concesso dal Comune legname di rifabbrico ai richiedenti.
Nel Contratto d’Abboccamento per i lavori boschivi dell’ anno 1874 e il successivo Segno effettuato nel 1875, firmato dall’ avvocato Luigi Rizzardi Sindaco protempore di Auronzo e Giacomo De Filippo De Grazia, nominato abboccatore boschivo per la Frazione di Villapiccola, al punto 15 era stato stabilito che dopo la misurazione dei tronchi effettuata da un apposita Commissione nominata dal Consiglio Comunale, l’ abboccatore doveva fornire su richiesta dell’ acquirente e della Commissione gli operai necessari per muovere, stivare, segnare ed innacquare le taje. A causa di alcune divergenze insorte durante l'esecuzione di un contratto di consegna tra il Comune di Auronzo e i mercanti di legname fratelli Malcom e Bortolo Lazzaris, il Tribunale di Venezia in data 29 giugno 1888 sentenziò di far segnare e consegnare d'ufficio ai due mercanti 2771 taje e thime, posteggiate negli stazi di Ponte Da Rin e Salietto.
La Commissione di Segno del Comune di Auronzo composta da Daniele Corte, Giuseppe Zandegiacomo e Pio Monti, coaudiuvati dal Sotto Ispettore forestale Cappelletto Agostino come parte tecnica, De Sandre Gaspare - Antonio fu Melchiorre di Vigo e Zanetti Angelo fu Lorenzo di Lozzo quali testimoni voluti dall'articolo 8 del quaderno d'oneri e Da Rin Puppel Giovan Battista di Laggio quale misuratore, marchiarono d'ufficio tutte le taje e thime con le sigle dei due mercanti, omettendo le tappe usuali. Il 14 aprile 1903 Gustavo Protti, mercante di legname a Longarone, scriveva all'Avv. Alessandro Vecellio, Sindaco del Comune di Auronzo: "Interpellata l'impresa Condotte Fluviali circa il Segno, di cui Lei mi ha informato, questa mi risponde che non è possibile dar principio alle operazioni prima del mattino del giorno 27 andante, cominciando a Tasson per le taglie di Collalto per terminare allo stazio del Ponte Da Rin". Sempre lo stesso, in data 6 aprile 1906, informava il Sindaco di Auronzo: Di rimandare il principio del Segno al giorno 23 aprile invece che il 17, inquantochè, per quanto mi sia adoperato, non mi è stato possibile di coordinare per prima di quell'epoca il decreto di fluitazione, causa la riluttanza dei menadazzi".
Il 26 giugno 1915 il Comune di Auronzo firmava il contratto definitivo nel quale si impegnava, anche a nome delle due Frazioni di Villapiccola e Villagrande, di approntare e consegnare durante gli anni 1917, 18, 19, 20 e 1921 alla ditta Fratelli Feltrinelli di Milano, sui soliti staz$e da Segno, non meno di 20.000 taje e thime, con l'obbligo dell'acquirente di accettarne anche un numero maggiore.
A causa della guerra in atto, al contratto venne data solo parziale esecuzione nel 1917 con la consegna di 19.000 tronchi circa. Durante la prima guerra mondiale l'Esercito Italiano aveva necessità di grandi quantità di legname e così iniziò la devastazione dei boschi della Val dell'Ansiei che continuò anche dopo, con l'invasione degli austriaci.
A parte i danni nei boschi di Val de Marthon, Mèsorina, Rinbianco, Val Popena, Proathei e Spès da Rin dove durante il periodo bellico vennero tagliate ben 275.793 piante, il Comune e le due Frazioni di Auronzo consegnarono dal 1915 al 1918 ai due Eserciti e alla ditta Feltrinelli ben 92.500 tra taje e thime. Il contratto con la ditta Feltrinelli all' articolo 3 prevedeva che: " La lunghezza delle taglie e cime, compresi i piloni che dovranno essere ben arrotondati, sarà di m. 4,17, al di sotto di tale lunghezza e fino a m. 4,00 l'acquirente sarà obbligato di riceverle per buone fino al 10% del loro numero per ciascuna categoria. Al di sotto di questi limiti e fino a m. 3,82 dovrà riceverle, ma computarle sotto misura e cioè nella classe delle taglie di diametro inferiore." E all'articolo 4:" L'acquirente nel giorno fissatogli dal Comune dovrà intervenire di persona o mediante un legale suo rappresentante alla misurazione e ricevimento dei prodotti acquistati. In difetto del suo intervento o rappresentanza, la merce verrà egualmente misurata, assunta in prenotazione, segnata, e, se del caso, fatta anche inacquare dall' Autorità Comunale per conto e spese dell'acquirente, presenti però due testimoni." Ed infine all'articolo 14:" Dal momento che viene presa in tessera o prenotata la merce, la si intende definitivamente consegnata all' acquirente, e la stazione appaltante è sciolta da ogni responsabilità. Dietro a ciò, è libero il compratore di sovraporvi ed incidervi le Tappe e Segni del caso, di metterla in fluitazione, od altrimenti trasportarla".
In Cadore non erano soltanto le Regole, i mercanti ed i proprietari di legnami ad essere titolari di un Segno, ma ogni nucleo famigliare fuoco ne possedeva uno che, depositato assieme a quelli di tutti i Regolieri residenti nel territorio, veniva trascritto nel Notes dei Colendiei, o in un apposito registro assumendo un valore legale anche in caso di controversie o vertenze essendo l’unico Segno di distinzione che la maggior parte dei Cadorini conoscevano.
Il Segno di casa apparteneva al capofamiglia e veniva trasmesso integralmente al primogenito, mentre ai fratelli minori quando si sposavano veniva assegnato lo stesso Segno al quale veniva aggiunta una piccola variante che ne manteneva inalterata l'unicità rispetto a tutti i Regolieri compreso il fratello maggiore. Il Segno di casa veniva usato soprattutto per attestare la proprietà del legname e degli attrezzi da lavoro e fino al secolo scorso era impresso anche sul portone d’ingresso dell'abitazione di ogni famiglia. Purtroppo in Cadore, a causa dei numerosi incendi che avevano devastato diversi villaggi, dal 1850 in avanti i Comuni decisero di attuare un nuovo piano di rifabbrico che prevedeva di abbattere le antiche case cadorine costruite in prevalenza di legno, obbligando a ricostruirle tutte in muratura secondo la tipologia propria della pianura veneta, che niente aveva a che fare con l'archittettura tipica delle Dolomiti.
Con l'abbattimento delle vecchie case di stile Cadorino sono scomparsi numerosi Segni di casa che, come abbiamo potuto riscontrare visitando le poche rimaste in piedi, erano stati incisi dai proprietari sulle travi, sulle porte d'ingresso e in vari punti strategici delle tipiche costruzioni nelle quali generalmente risiedevano più famiglie.
Nell'Archivio del Comune di Auronzo sono conservati due bastoni di legno detti "mathe de la Fradès" sui quali sono incisi i Segni di casa dei fondatori della "Fradès Piciola de Santa Ostina de Aurontho". Le Fradiès, fratellanze o confraternite, sono di origine antichissima, forse precedenti alle stesse Regole ed erano note in Cadore fin dal 1200: Taddeo Jacobi ha scritto che il documento più antico sulle Fradiès in Cadore, è una pergamena di Lozzo che risale al 3 luglio 1295. Seguono poi Cibiana con una pergamena del 1304.
Nell'archivio di Pozzale esisteva un inventario dei beni spettanti a quella Fradès scritto nel giorno 17 maggio 1330. Casada di Santo Stefano in Comelico aveva una pergamena che citava la Fradès in occasione di un testamento stilato il 26 settembre 1328. Nel Laudo di Pieve di Cadore del 17 marzo 1537, il paragrafo 37, ricorda l'antica consuetudine della "Fradesia". Difficile dire se erano istituzioni laiche o religiose: sull'argomento oltre a Taddeo Jacobi ha scritto lo studioso calaltino Marcello Rosina, pagg. 69 - 77 del volume "Il Laudario dei Vertebrati - Pieve di Cadore - XIV Secolo".
Nell' assemblea dei Fradèsane tenutasi il 27 dicembre 1624 in casa di Gaspare e fratelli Pais fu Vito, venne deliberato di trascrivere su carta i nomi e cognomi di "cadauno non ritrovandosi se non li Segni d'ogni uno sopra d'un Legno o Mazza", cioè solamente in tale data viene ritenuto opportuno che le generalità degli affiliati, fino ad allora identificate solamente tramite i Segne de ciasa incisi sui bastoni, potessero essere conosciute e tramandate fino a noi, trascrivendole sul verbale dell'Assemblea.
Il Marigo di turno conservava le mathe de la Fradès e guardando i Segni che vi erano incisi sopra sapeva esattamente l'identità di ognuno dei confratelli; si può quindi presumere che in Cadore ci sia stato un periodo in cui i Segni di casa rievocassero a chi li osservava l'identità dei loro proprietari quasi come in una fotografia. Ferruccio Vendramini nel volume "Le Comunità Rurali Bellunesi (secoli XV e XVI)", pubblicato da Tarantola nel 1979, a pagina 110 ha scritto :
"Quando si teneva Regula, cioè ci si riuniva in assemblea, le famiglie erano avvisate dai marighi o dai saltari: a Pialdier si precisa che il marigo era obbligato a suonare tre volte la campana della chiesa prima di cominciare "a chiamar le stele". Le "stele" corrispondevano alle famiglie rappresentate da un contrassegno, inciso talvolta una "mazza" di legno.
Il 20 dicembre 1563 l'Arcidiacono del Cadore Giambattista Palatini, testimone il parroco di Auronzo Giovanni Vecellio Zamberlan, ordina ai Giurati della chiesa di Santa Giustina in Auronzo di incidere su un bastone tutti i Segne de ciasa di coloro che dovevano pagare l'affitto alla chiesa e su un altro bastone, l'ammontare dell'affitto medesimo.
I bastoni a fine anno venivano bruciati.
I Registri più antichi con i Segne de ciasa attualmente consultabili in Cadore risalgono al 1600.
Ma in alcuni documenti del secolo precedente sono disegnati alcuni Segni dei mercanti di legname, tra i quali i più importanti sono quelli contenuti nel Libro delle Denunzie delle Taglie e Tajoni compilato negli anni 1596 - 1597 da Bartolomeo Sacco Officiale di Comelico Superiore e trascritti purtroppo solo in parte da Taddeo Jacobi, avvocato di Pieve di Cadore.
Presumiamo che solo in quel periodo sia nata la necessità di trascrivere su manoscritti i Segni accompagnati dal nome e cognome dei titolari; prima d'allora, come dimostrato dal documento della Fradès de Aurontho, l'elenco degli appartenenti ad una Regola o Confraternita era formato dall'incisione dei loro Segni di casa sui bastoni o sulle travi del Paveon.
Nel 1963 alcuni anziani mi hanno riferito di aver saputo dai loro padri che sulle travi del Paveon, il locale dove avvenivano le Assemblee delle Regole, erano incisi i "Segne de ciasa de dute i Fuoghe che scompartia le Regole de Aurontho, ma l'Paveon è stou desfato e i trave burgiade".
Durante le Assemblee delle Regole e delle Confraternite, chi aveva l'incarico di fare l'appello dei presenti riconosceva senza ombra di dubbio, in ogni Segno, un individuo.
Anche se una famiglia era composta da dieci o più persone ma conviventi attorno allo stesso Fuoco, si usava un solo Segno per tutti.
Durante i lavori di restauro della chiesa dedicata a Sant'Antonio Abate di Candide eseguiti da Annamaria Festini Cromer, tra gli affreschi sono riapparsi alcuni Segni de casa dipinti nel XVI secolo.
Grazie alla disponibilità del Parroco Don Attilio Zanderigo Jona ho potuto visitare la chiesa, il più prezioso esempio dell'arte gotica in Cadore.
Bruciata nel 1508 dalle truppe di Massimiliano d'Austria, la ricostruzione venne affidata al Carnico Mistro Culau fu Ruopel dal Pievano Don Paulo Zandonella e dai due Giurati della chiesa Nicolò Bassanello e Nicolò Dorigo. Nel 1538 ad edificazione ultimata vennero fatti dipingere i Segni di casa: quello del Pievano Paulo Zandonella da Dosoledo , in alto dietro all'altare e quelli dei due Giurati Bassanello e Dorigo, sulla parete rivolta verso la chiesa Parrocchiale.
La chiesa è stata consacrata in onore di Dio, di Sant'Antonio Abate, di Santa Lucia e Santa Caterina d'Alessandria dal Vescovo di Cattaro Luca Bisanzio, a nome del Patriarca d'Aquileia Giovanni Grimani. Questo è stato il primo riscontro di Segni di casa non incisi sul legno o trascritti sui manoscritti, ma dipinti sui muri di una chiesa insieme agli affreschi, a conferma di alcune intuizioni avute durante la ricerca. Durante quel periodo in Cadore i Segni di casa precedevano quasi sempre le generalità del firmatario, anche perché non rappresentavano quasi mai una sola persona ma tutta la famiglia. Il ritrovamento dei Segni nella chiesa di Candide è stato talmente importante da farmi ritenere che non siano un episodio isolato. Quando ho cominciato le ricerche non immaginavo che la consuetudine di firmare i documenti con il Segno di casa fosse così diffusa in passato.
Dopo averne visionati alcuni in Comuni e Regole diverse ed aver verificato che molti Segne siglano anche documenti ritenuti giuridicamente molto importanti, ho cercato negli archivi la possibilità che in qualche periodo si fosse anche legiferato in proposito, ma finora le ricerche hanno dato esito negativo. Riporto alcuni esempi: Nel Registro di Stato Civile del Comune di San Pietro in Comelico, risalente agli anni 1807 - 1815, che ho potuto esaminare grazie alla cortesia e alla ricerca storica di Luigino Cesco Gaspare, due Segni di casa apposti rispettivamente il 2 ed il 17 novembre del 1807 ufficializzano la nascita di Maria Antonia De Bernardin e Giovanni Battista Antonio Pradetto entrambi della Frazione di Valle.
Tomaso Pais Marden di Auronzo conserva un importante documento datato 2 agosto 1814 che recita: "In Nome di Sua Maestà Francesco I° Imperatore d'Austria, Re d'Ungheria, Boemia ec.ec. - Dipartimento della Piave, Distretto di Cadore, Cantone e Comune di Auronzo Avanti a Noi Reghini Giudice di Pace del suddetto Cantone di Auronzo, si è presentato il sig. Valentino Sacco Somprà possidente, domiciliato in Dosoledo Comune del Comelico Superiore …omissis…Parimenti si è presentato Domenico del fu Pietro Pais Marden faciente e rappresentante anche il fratello Osvaldo …omissis…A tali termini essendosi conciliate le Parti, istano che la presente sia vestita di carattere esecutorio in senso del Decreto 9 agosto 1808, noi abbiamo steso il presente processo verbale, che l'attore ha sottoscritto, ed il Pais Marden presente, che garantisce le premesse cose pel Fratello, col proprio Segno essendo illetterato, unitamente a Noi ed al nostro Vice - Cancelliere".
Presso la Regola di Santo Stefano in Comelico, ho trovato alcuni Segni de casa apposti come firma su tre documenti che vanno dal 1856 al 1859 e che trattano di conteggi e segnatura di legname effettuati in Visdende per la frazione di Casada da parte dell’ abboccatore incaricato Carlo Comis. Due operai di Casada: Gio:Batta Comis fu Francesco e Gio:Batta Comis fu Giuseppe che si dicono illetterati, al posto della firma hanno apposto il loro Segno di casa.
Anche in una lettera spedita da Auronzo il 14 giugno 1862 da Bonafede Da Ponte Beccher al suo amico Martino De Luca emigrato a Gorizia, il Da Ponte oltre alla propria firma, appone anche il Segno di casa.
Ezio Ragnes di Andraz, mi ha dato in copia un documento avuto dalla sua maestra elementare Maria Lezuo Agostini, parte del libro mastro delle miniere del Fursil in Colle Santa Lucia datato: 23 febbraio 1746, nel quale Domenego di Zuane Da Riz , per garantire la veridicità dello stesso si firma con il proprio "Segno di sua casa". Nel libro che raccoglie i “Sens de Cèsa” delle frazioni che compongono il Comune di Livinallongo del Col di Lana, Ragnes ha scritto : “ Ma cosa furono e cosa sono i Sens de Cèsa: contrassegni, tracce, chiamiamoli anche impronte -se vogliamo- atti in ogni caso a far conoscere, dimostrare e rappresentare con segno apparente lo stato di proprietà.
La proprietà ha origini molto remote secondo Homeyer (1870) il segno di casa risulta essere il modo più antico e nello stesso tempo il più semplice per indicare la proprietà.
Indubbiamente esso è nato dalle necessità della vita contadina. Ebbe così grande importanza nello status vivendi dei nostri antenati - fino ad alcuni decenni - contrassegnare con marchio, col Sen de Cèsa il legnatico, gli utensili e non solo, di proprietà di ciascuna famiglia.
Non è rilevabile l’esatto periodo storico in cui si composero e si diffusero, si sa per certo che i primi a farne uso furono i tedeschi settentrionali, poi i Norvegesi e Svedesi attorno all’anno 1400 (Dithmarschen). Dopo tale periodo si diffusero in Islanda, Danimarca, Amburgo, Lubecca, Danzica e nella penisola e isole di Ruágen fino in Lettonia a Riga: Quindi a Strasburgo e Norimberga nel 1700 (Homayer e Handgermal). In Svizzera e più precisamente a Kerenz (cantone franco-germanico di Glarona-Glarus), il segno di casa è di attualità fin dal 1500 (Liebeskind). Nel 1872 si ha notizia che i segni di casa sono presenti in Inghilterra, Austria, Svizzera, Francia e Italia (Ruppel).”
Dal Libro "Il Cadore degli Emigranti"
Il 23 luglio 1741 i Regolieri della Vila Granda e della Vila Piciola riuniti nel padiglione del Magnifico Commune Generale di Auronzo (Anch'esso una Regola che comprendeva tutte le Regole presenti nel Centenaro di Auronzo, da non confondere con i Comuni attuali, costituiti solo molti anni più tardi da Napoleone), elessero Antonio Cattaruzza fu Giacomo, Valentino fu altro Valentino Monte e Zan Battista Vecellio fu Bortolo quali Periti per la distribuzione di oltre trecento Colendiei (lotti di terreno regoliero e quindi inalienabili ed indivisibili che venivano assegnati in uso per un certo numero di anni ).
I Colendiei furono distribuiti seguendo i confini già delimitati dai Segni di casa dei precedenti usufruttuari, che vennero disegnati sul Registro da Francesco Vecellio Nodaro accanto al nome e cognome di ciascuno di loro, trascrivendo sotto la descrizione di ogni colendel i nomi dei nuovi Regolieri al quale era stato assegnato.
Nel mese di dicembre 1999 la rivista "Studi Medievali" ha pubblicato la recensione del volume "Segni nelle Dolomiti Orientali", che ho pubblicato nel 1998 insieme ad Ada Martella.
Il glottologo Giovan Battista Pellegrini, autore dell'ampia e articolata recensione, rileva la necessità di approfondire lo studio dei "Segni di casa" perché "si ha l'impressione che il problema della loro origine e della loro storia, collegata ovviamente all'analfabetismo quasi generale, rimanga ancora da studiare ulteriormente…
chi si è occupato di iscrizioni preromane (che non mancano in Cadore) non avrà tralasciato il tentativo di associare i nostri segni, assai vari, con alfabeti preromani; ma tali tentativi non hanno per ora alcuna consistenza e giungere a una tipizzazione è assai arduo.
Certamente i segni corrispondono, per quanto si può sapere, a sigle, a simboli, sicuramente senza alcun valore fonetico.
Tuttavia è opportuno - come riconoscono giustamente i nostri due autori (pp. 8 - 9) - accennare alle informazioni sul bosco, sui confini del bosco e sulle incisioni di possesso di cui parlano le fonti alto medievali germaniche.
Molte indicazioni con termini precisi ci provengono dalle antiche carte e non si trascurerà la toponomastica".
Il professor Pellegrini prosegue citando altri lavori sull'argomento tra cui il saggio di Hanelore Zug Tucci, "Il Marchio di Casa nell'uso italiano" , in "la ricerca folklorica", 1982 - a cura di G. R. Cardona - pp. 119 - 128, che noi non abbiamo citato nel libro - e ne chiediamo venia - perché non eravamo a conoscenza di questo importante lavoro.
Lo riporto tale e quale come riassunto nella recensione del prof. Pellegrini:
"Giustamente l'Autrice dichiara che esiste qualche apparente somiglianza dei segni con gli alfabeti runici (Futhark); ma deve essere giudicata casuale e qui non mancano vari autori citati che rifiutano nettamente la tesi runica proposta da altri, La Zug Tucci osserva come i marchi di casa erano diffusi in varie nazioni europee ed essi identificano il proprietario del bene e ne tutelano i diritti nei confronti della società. Tuttavia operano anche in direzione opposta salvaguardando, in alcuni casi le ragioni di terzi della comunità. Molte notizie sui nostri marchi si possono raccogliere in Svizzera, ove ancora alla fine del Ottocento il marchio poteva servire nel modo più semplice anche da lettera di obbligazione; ed il marchio, conservato in un regolo di legno era appeso nella propria casa finchè il debito non fosse estinto. I sistemi evoluti di scrittura e di comunicazione hanno ridotto ed estinto in epoca relativamente recente gli usi, un tempo assai comuni, di avvalersi dell'impiego del marchio.
L'Autrice esemplifica in una tavola (p.121) le varie forme delle "nodas" (stilizzate) per il paese di Domat - Ems nei Grigioni con accanto i nomi dei proprietari (indicati anche dai soprannomi); si elencano poi esempi veramente numerosi del nostro sistema elementare di comunicazione ed essi si individuano in Friuli, in Cadore e nei Grigioni. L'Autrice non manca di indicare l'eventualità della continuazione di usi dell'Europa settentrionale che comprende l'Inghilterra, i Paesi Scandinavi, fino alle regioni centrali, la Germania, l'Austria e la Svizzera e di qui un prolungamento nell'Italia alpina.
La Zug Tucci non tralascia di ricordare la registrazione comunale delle sigle proprio per il Friuli ed il Cadore "mentre in Germania ed in Svizzera i libri possono essere tenuti anche dai capi forestali locali".
Tali scritture nei registri ufficiali risalgono ad epoca antichissima, in uso in Italia fin dal Trecento. La Zug Tucci non dimentica di accennare ai tentativi di riavvicinare i nostri marchi ad elementi dell'alfabeto latino, ma tali tentativi ci appaiono per ora assai improbabili; né possono essere attribuiti a lettere per indicare l'iniziale di un nome di persona. Cita inoltre altre ipotesi da scartare.
Nella Tavola 2 si dà un ampia esemplificazione di marchi cadorini (analoghi pertanto a quelli elencati da Pais Becher - Martella) con le corrispondenze alle varie famiglie. Interessante particolarmente è la tavola 3 con la terminologia tedesca dei singoli segni che sono anche descritti; ad es. asta, asta con piede, asta con testa a scaglione rovesciato ecc., molti segni sono descritti e classificati mediante la posizione delle barre trasversali; comunque sinora non pare che sia valido alcun tentativo di interpretazione generale e analogamente i confronti con alfabeti antichi, preromani, latini e greci". La recensione prosegue con l'analisi di una ricerca effettuata da A. P. Ninni "
Sui segni prealfabetici usati anche ora nella numerazione scritta dai pescatori clodiensi", ricerca che è stata pubblicata a Venezia nel 1889. La recensione è molto corposa, e ci onora per il prestigio accademico dell'autore.
Estratto dal libro *Segni nelle Dolomiti Orientali* scritto da Giovanni (Gianni) Pais Becher ed Ada Martella in capitoli separati.
Pubblicato nel 1998 con gli auspici della Comunità Montana Centro Cadore. Con aggiornamenti pubblicati sul libro *Il Cadore degli Emigranti* scritto da Giovanni (Gianni) Pais Becher nel 2000 ed edito con il contributo della Comunità Europea.
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